Scenario
Il nostro tempo è segnato da instabilità geopolitica, riallineamenti delle filiere globali e politiche industriali sempre più aggressive da parte di Stati Uniti, Cina e nuove economie emergenti.
Il tema dei dazi è solo una delle componenti del clima di forte incertezza che stiamo vivendo, che genera a sua volta una grave tensione per l’industria italiana. I dazi, infatti, non colpiscono soltanto i beni di consumo – come moda, arredamento, agroalimentare – ma rischiano di impattare anche sui beni intermedi e macchinari, che sono alla base della nostra forza competitiva.
L’effetto non è solo economico ma strategico: gli Stati Uniti sono il principale mercato di sbocco dell’export extra Ue e rappresentano il mercato dove il Made in Italy può esprimere il massimo potenziale in termini di qualità, posizionamento e marginalità. Per molte imprese, soprattutto PMI, l’aumento dei dazi significa dover sostenere costi aggiuntivi immediati o, in alcuni casi, rinunciare a quote di mercato.
Nel lungo periodo, è forte l’incentivo a rilocalizzare alcune produzioni nel mercato USA: il rischio per l’industria europea è di perdere parti vitali del tessuto produttivo. In un’epoca di competizione globale così intensa, la prevedibilità delle regole commerciali è essa stessa un elemento di competitività.

I dazi non vanno, dunque, letti soltanto come un tema di breve periodo, ma come un potenziale fattore strutturale che impone all’Italia e all’Europa una strategia comune più incisiva in materia di politica commerciale, di diplomazia economica e di tutela del proprio tessuto produttivo.
È dentro questo scenario che vorrei concentrare l’attenzione sul ruolo dell’industria italiana e del Made in Italy nella competizione internazionale. Le più recenti valutazioni dell’OCSE indicano che, pur migliorando le prospettive di crescita per l’Europa, il divario con gli Stati Uniti non si colma. Nel 2024 gli USA crescono di poco meno del 3%, mentre l’Eurozona si ferma intorno allo 0,8% e l’Italia attorno allo 0,5%[1]. E nel 2025, nonostante un lieve recupero europeo verso l’1%, il rallentamento previsto per l’economia americana non basta a chiudere un gap che rimane significativo.[2] In una prospettiva di crescita, dobbiamo pensare al Made in Italy come la spina dorsale della nostra economia.
[1] OCSE e Dati della crescita del PIL 2024 vs 2023 e stime al 2025: OCSE Crescita del PIL annuale 2024
[2] OCSE luglio 2025
Il Made in Italy
Il Made in Italy è molto più di un marchio: è un ecosistema produttivo e culturale che crea valore nel mondo.
Il cuore del nostro modello competitivo è il “Bello e Ben Fatto”, un paniere di 746 prodotti ad alta qualità che vale oltre 170 miliardi di euro di esportazioni, trainato dalle 3F – Fashion, Food & Furniture – e da filiere come gioielleria, cosmetica, nautica. Negli ultimi dieci anni la crescita del BBF è stata in media del 7% annuo, superiore a quella dell’export complessivo del Made in Italy (+4,7%), a conferma di una capacità unica di unire creatività, qualità, tecnologia e reputazione.

È proprio questo valore immateriale che dà alle nostre imprese un forte potere di prezzo: il consumatore internazionale riconosce nel prodotto italiano qualità, design e autenticità difficilmente imitabili. Ne derivano prezzi più stabili, che offrendo margini più solidi consentono alle imprese maggiori investimenti in competenze e innovazione, occupazione qualificata e un ulteriore rafforzamento delle nostre filiere. In sintesi, il Made in Italy si pone all’origine di un ciclo virtuoso di crescita nazionale che dobbiamo cogliere.
Il potenziale è ancora enorme: quasi 28 miliardi di euro di export aggiuntivo, in particolare nei mercati avanzati e negli Stati Uniti.
All’interno di questo panorama è fondamentale sottolineare che il Made in Italy di oggi non coincide più soltanto con i settori tradizionali. Accanto alle 3F sta crescendo una componente sempre più rilevante di settori ad alta intensità tecnologica: farmaceutica, biotecnologie, space economy, industrie culturali e creative evolute e, soprattutto, la meccanica strumentale avanzata, un’eccellenza riconosciuta in tutto il mondo. Mi riferisco a beni strumentali ad altissima sofisticazione, che integrano automazione, elettronica, sensoristica, design industriale e capacità di personalizzazione. Sono macchinari che modernizzano i processi produttivi dei nostri clienti internazionali e che rappresentano uno dei più potenti moltiplicatori di competitività dell’intero sistema manifatturiero italiano. L’Italia è leader globale nella produzione di questi macchinari: il loro export vale 32,1 miliardi di euro, con un potenziale aggiuntivo stimato in altri 8 miliardi sui mercati mondiali.
Politiche economiche e industriali
La realizzazione di ulteriori margini per l’export italiano non è però automatica. Aumentare le esportazioni implica a monte un incremento della produzione, che a sua volta passa per una crescita degli investimenti.
A tal fine è necessario uno sforzo coordinato di imprese e istituzioni per favorire un irrobustimento generalizzato del sistema produttivo italiano e della sua competitività lungo vari assi.
L’esperienza che abbiamo realizzato in questi anni con il Piano 4.0 prima e poi con il Piano Transizione 5.0 dimostra che le imprese sono aperte all’innovazione e che strumenti di incentivazione ben costruiti e chiari possono concretamente dare un boost agli investimenti. Investire significa innovare processi e prodotti, aumentare la produttività e la competitività: significa rimanere nelle filiere produttive anche internazionali e significa garantire la posizione di primo piano dell’Italia nell’export.
Siamo in una fase particolarmente complessa, con equilibri geopolitici profondamente mutati. Occorre quindi fare un salto di qualità nelle politiche economiche, con un ragionamento più alto, che non sia limitato alla definizione di singole misure, ma che guardi alle complessità del contesto globale. Serve una chiara strategia di politica industriale che riconosca la centralità dell’industria nell’economia e sul ruolo che svolge per la crescita sociale del Paese, garantendo occupazione, competenze e innovazione.
La politica industriale deve essere stabile, basata su incentivi chiari e orientati a obiettivi misurabili, con una valutazione seria dei risultati per concentrare le risorse su ciò che davvero funziona in termini di investimenti, innovazione e crescita dimensionale delle imprese.
È centrale poi coerenza con le politiche europee, alle quali chiediamo un cambio di passo deciso per dare un supporto concreto all’industria europea e alla sua competitività. Va adottato un approccio basato sulla neutralità tecnologica, riducendo la burocrazia che impone costi altissimi alle imprese.
E dentro questo percorso, anche la legge di bilancio deve assumere un ruolo nuovo: non può essere ogni anno una rincorsa, ma il primo tassello di una programmazione industriale pluriennale, capace di dare certezza alle imprese e sostegno stabile agli investimenti, all’innovazione e al Made in Italy.
Priorità, Ricerca e Sviluppo
Se vogliamo che l’Italia continui a essere un protagonista globale, dobbiamo rafforzare le condizioni di base della competitività. Ci sono alcune direttrici trasversali sulle quali dobbiamo muoverci in modo prioritario.
La prima riguarda il costo dell’energia, che rimane un fattore di svantaggio competitivo strutturale: pagare l’elettricità oltre il 30% in più rispetto alla Germania e quattro volte tanto degli USA significa comprimere i margini, limitare gli investimenti e ridurre la capacità di competere sui mercati globali. [3]
La seconda è la ricerca e l’innovazione, perché governare i cambiamenti significa detenere le tecnologie. Invece dal 2000 ad oggi, il gap accumulato con gli USA negli investimenti in R&S supera i 17 punti di PIL.[4] Dobbiamo rafforzare la nostra capacità di fare ricerca applicata, accelerare i partenariati pubblico-privati e sostenere la diffusione delle tecnologie abilitanti nelle filiere produttive, soprattutto nelle PMI.
La terza priorità riguarda la protezione della proprietà intellettuale, che oggi è uno dei pilastri più concreti della competitività europea. Le industrie ad alta intensità di diritti di proprietà intellettuale generano il 47% del PIL dell’Unione europea, quasi il 30% dell’occupazione e circa l’80% dell’interscambio commerciale europeo. E il vantaggio è evidente anche a livello di impresa: chi detiene gli asset immateriali registra ricavi mediamente superiori del 40% per cento e salari più alti del 22% rispetto a chi non lo fa.
L’Italia, negli ultimi dieci anni, ha aumentato del 18% le domande di brevetto europeo, ma resta ancora lontana dai livelli di Germania (quasi 13%) e Francia (5,5%): un divario che pesa sulla nostra capacità di competere nelle filiere tecnologiche globali. Per colmarlo serve sia rafforzare l’attività di R&S sia promuovere la cultura della brevettazione tra le PMI. Per questo, abbiamo avviato un roadshow sul territorio, con l’obiettivo concreto di diffondere la cultura della proprietà industriale e grazie all’IP Education Plan – progetto condiviso con il MAECI e il MIMIT- l’importanza della sua tutela.
Il Made in
Italy è un elemento decisivo della competitività nazionale e Confindustria è impegnata da sempre nella sua promozione e nella sua tutela, in Italia e nel mondo. Per rafforzare ulteriormente questo impegno, per la prima volta abbiamo istituito una delega specifica al Made in Italy, accanto a quella sulle politiche industriali: due responsabilità che ho l’onore di ricoprire e che considero profondamente complementari.
È su questa sinergia che dobbiamo costruire la competitività del futuro: unire politiche industriali solide e un Made in Italy forte, riconoscibile, proiettato nei mercati globali. È un lavoro che stiamo portando avanti con determinazione, perché dare alle imprese italiane le condizioni per crescere, innovare ed essere protagoniste nel mondo, significa dare forza all’Italia e al suo futuro.
[3] CSC “Energia, green deal e dazi: gli ostacoli all’economia italiana ed europea” 2025
[4] CSC “Energia, green deal e dazi: gli ostacoli all’economia italiana ed europea” 2025